domenica 27 dicembre 2015

Cinque tipici commenti da lit-blog che meritano cinque minuti di disprezzo (al giorno)

Due giorni fa il blogger di Pennablu  - sito abbastanza in voga dove la maggior parte degli articoli è del tipo:  "sì, pubblicare è difficile ma è un sogno a cui non bisogna rinunciare!", oppure "cinque motivi per cui il sole è giallo e i politici sono tutti cattivi", insomma roba che nemmeno le perle di saggezza di Padre Maronno -  mi ha catalogato tra quei lettori che "si fanno sentire per la prima volta solo quando trovano un post che non hanno gradito" e aggiunge: "Sarebbe da psicanalizzare questo comportamento".

Dopo aver chiarito la faccenda sul suo blog (spero mi sarà grato per avergli risparmiato la seccatura di reperire uno psicanalista vestito da Babbo Natale), vorrei porgergli i miei più sentiti ringraziamenti, avendo tratto da questa sua "considerazione" un ottimo spunto per scrivere le righe che seguono. 

Vengo al sodo: a cosa serve commentare i post pubblicati sui blog letterari? Cerchiamo di collegare almeno due neuroni, so che per molti è difficile (viviamo pur sempre nella generazione Uomini e Donne), ma una volta riusciti nell'impresa scopriremo una sconcertante verità: unico scopo dei commenti dovrebbe essere avere qualcosa da dire o, magari, da ridire riguardo gli articoli pubblicati dal blogger. Questa la teoria, pura e semplice. La pratica?
Vediamo un po'.
  
Non l'ho letto, ma mi incuriosisce
1) Commenti lecca-lecca. 
Alcuni lo chiamano comment-marketing. Si verifica soprattutto nei blog con un certo seguito, diciamo un migliaio di visite al giorno. Come mastodontici inceneritori (con la differenza che, purtroppo, non inceneriscono niente), questi blog non fanno che ingurgitare tonnellate di commenti immondizia, grazie all'opera dei compiaciuti fan che, con molto garbo ed entusiasmo, manifestano i loro apprezzamenti commentando a più non posso. E' un trend che fa comodo sia all'ego (e forse anche al portafoglio) del blogger, sia ai burattini che lo seguono con la speranza di ottenere in cambio visite sul loro blogghetto appena nato. Intendiamoci: non ritengo che il comment-marketing sia da evitare a priori. Diventa però un'operazione ignobile se protratto sistematicamente tramite lekkate da due soldi e/o opinioni annacquate del tipo: "Ottimo articolo, puntuale ed esaustivo come SEMPRE!... penso che la dimensione editoriale odierna debba rivedere i propri canoni per non rischiare di avvilupparsi su se stessa...viviamo in tempi difficili dove lo scrittore deve farsi imprenditore di se stesso...bla bla bla..."
Purtroppo i blog allineati a questa politica sono, per ovvie ragioni, i più commentati, e dal momento che i blog più commentati sono anche quelli che assicurano agli utenti (a loro volta proprietari di blog) una buona visibilità, il risultato è scontato: il numero di commenti cresce in modo esponenziale, in barba alla qualità e all'effettiva utilità degli stessi.



2) Chiacchiere da bar.

Dosis sola facit, ut venenum non fit. In parole povere: la dose fa il veleno. Non ho nulla in contrario alle chiacchiere da bar, se ben dosate. Discorso diverso se mi alzo alle sette di mattina, preparo il caffè, e prima di andare a lavoro mi leggiucchio l'articolo pubblicato dal mio blogger di fiducia, per poi commentare con le prime quattro cazzate che mi vengono in mente, senza nemmeno ricontrollare refusi o, ancora peggio, il senso di ciò che ho scritto, e faccio questo ogni santo giorno, preoccupandomi solo una volta su dieci di scrivere qualcosa di valido. D'altronde, perché dannarsi? Sto solo commentando un blog letterario, a che pro scrivere (almeno ogni tanto) qualcosa che abbia, appunto, un minimo di valore letterario, un'opinione ben congegnata o una critica dettagliata che possano davvero  arricchire quel blog e, dunque, coloro che lo leggono? 


H. Ford nel 1913 introdusse
 il modello di lavoro “a catena di montaggio” 

3) Commenti in serie. 

Qui parliamo soprattutto dei commenti scritti dal blogger in risposta agli utenti intervenuti. Daniele Imperi di Pennablu è particolarmente ferrato in quest'arte. Si tratta di commenti di due-tre righe dove il blogger, talvolta con piccole varianti, scrive sempre: "sì sono d'accordo con te" e nella migliore delle ipotesi aggiunge pure: "però le cose potrebbero anche essere leggermente differenti da quanto hai scritto". Magari non utilizzerà proprio quelle parole, ma il succo non cambia. Ovviamente, questo tipo di blogger non ama esprimere opinioni approfondite, e difficilmente si arrischierà a rispondere ai suoi fidati utenti/adepti qualcosa del tipo "ma che cazzo pene stai dicendo, ti sei bevuto il cervello?" Sarebbe contrario alla sua politica del "rispondo a tutti coloro che commentano il mio blog! E se un utente scrive cazzate mi limito a dire che non sono d'accordo, con molto garbo però eh, non vorrei sembrare antipatico!"





4) Le Perle del finto intellettuale. 

Vengono esibiti come alabastri di Volterra da quei poveracci che, esaltati dall'atmosfera di (finto) "salotto letterario" offerta dal blog di turno, sgomitano come forsennati per ostentare le proprie doti intellettuali. Scrivono sempre commenti di lunghezza improponibile, infarciti di termini altisonanti/desueti per darsi un tono, mettendo il becco ovunque, anche su argomenti di cui non sanno una mazza o di cui hanno sentito solo parlare, specie quando si discute di "robba seria" come lo Show don't tell, il Point of view, o del senso della vita secondo Proust etc. Ovviamente, il finto intellettuale non andrà mai a commentare i post di un vero lit blog (si renderebbe subito conto di non esserne in grado), così come un vero intellettuale non finirà certo a perdere tempo in un finto lit-blog (ovvero il 90% dei presunti lit-blog italiani). Esistono poi vie di mezzo, sfumature, ma la norma è questa.


Un vero hater

5) L'hater. 

Discorso più complesso, poiché spesso si fa confusione tra hater e troll. In effetti, il vero hater coincide, a mio modo di vedere, con una certa tipologia di troll, ovvero l'ignorante sfigato, brutto e frustrato (vedi immagine). Ad esempio, Gamberetta è stata spesso definita come la madre degli hater. Questo, naturalmente, lo dicevano e lo dicono i veri hater, ovvero i frustrati che odiavano Gamberetta per ovvie ragioni. Anch'io non ho mancato di criticare Gamberetta e i suoi adepti (qui un esempio), ma non la ritengo certo una semplice, squallida hater. Se poi si vuol etichettare hater una persona che fa satira, e lo fa in modo intelligente, allora mi fermo qui, sennò divento intrattabile.
Tutto ciò vale naturalmente anche per i commenti. Spesso le persone come me, che rompono il cazzo su blog composti-delicati-educati come Pennablu, vengono subito etichettate come i soliti rompicoglioni che, siccome non hanno ottenuto nulla dalla vita, non trovano di meglio da fare che denigrare il lavoro altrui. Liberi di pensarlo. Io ho l'abitudine di non esprimermi su argomenti che non conosco o conosco poco, e non ho peli sulla lingua quando si tratta di affermare che un post fa schifo, anche se il blogger di turno si chiamasse George Orwell. Forse mi sbaglio? Bene, sono aperto al dibattito. A un dibattito vero però, non a sentirmi dire cazzate del tipo "alcuni lettori si fanno sentire per la prima volta solo quando trovano un post che non hanno gradito! Psicanalizziamoli!".

Conclusioni

Non nego di aver fatto parte anche io, talvolta, di una delle sopracitate categorie, e certo mi capiterà di farne parte anche in futuro, come è ovvio che sia. Tuttavia, difficilmente tali comportamenti diverranno mai una mia abitudine, né mai li asseconderei sul mio blog. Peccato essere in minoranza.

Ah, Buone Feste a tutti.

mercoledì 23 dicembre 2015

Star Waters VII: il ristagno dello sterco


Tanto tempo fa,
in una Carcassa lontana...ma proprio veramente lontana...

All'incirca trent'anni dopo la riparazione del terrificante scaldabagno intergalattico “Morte Nera” (che soffriva di gravi problemi di surriscaldamento, tali da incenerire un intero pianeta), Luke Skyworker, l'ultimo Jedraulico della Carcassa, è scomparso, trascinando con sé secoli e secoli di prezioso know-how nell'utilizzo della Morsa (idraulica, ovviamente). Tutti lo cercano: sua sorella Leia Orgasma, Han Compagnone e il suo zerbino senziente Ecciù (peli e polvere fanno starnutire, si sa), per non parlare della Resistenza, ovvero un gruppo di idealisti sessantottini che insegnano alle genti come evitare di mostrare il lato Lato Oscuro, volgarmente definito “culo”, a un nuovo modello di water intergalattici che, tramite l'orifizio anale, sono in grado di risucchiare moralità e raziocinio dalle menti dei malcapitati che vi adagiano sopra le natiche. Infatti, il Primo Disordine, una multigalassiale (evoluzione delle nostre multinazionali) spietata con sede in Germania, che per sfuggire all'antitrust ha mutato svariate volte ragione sociale (un tempo si chiamava Impero), non contenta dei danni arrecati all'umanità col suo scaldabagno Morte Nera, ha ben pensato di truccare i dati antinquinamento dei propri water, tramutando questi ultimi da umili contenitori di materiale fecale in avveniristiche macchine succhiacervelli.

ATTENZIONE! Da questo momento in poi il post assumerà caratteri deliranti e, soprattutto, spoileranti. Per cui evitate di leggerlo se avete intenzione di guardare questo "film" e non volete rovinarvi la sorpresa.

Poe Damerino, un tipico eroe della Resistenza, viene quindi mandato sul pianeta Jakku per incontrare un saggio che dovrebbe custodire una mappa segreta che conduce al famoso Jedraulico Luke Skyworker. Proprio così: un saggio che custodisce una mappa segreta che conduce al famoso Luke. Damerino, in un primo momento, voleva rifiutarsi: insomma, missioni così stupide e scontate non si sono viste forse nemmeno nei romanzi di Licia Troisi. Possibile che per il povero Damerino non si poteva inventare una missione appena più originale?
Allo stesso tempo, anche il Primo Disordine sta cercando di recuperare la mappa: infatti, l'eventuale riassunzione a tempo indeterminato di Luke Skyworker (che, ricordiamo, non si sa dove cazzo sia finito) potrebbe mandare di nuovo all'aria i perfidi piani della compagnia. In particolare, Darth Water, il più cattivo del Primo Disordine, nonché fantoccio cosplayer che tenta a ogni costo di somigliare all'unico e inimitabile Darth Vader del vecchio Impero, è impegnato anima e corpo in questa missione farsa del recupero mappa, e ogni volta che le cose non vanno come vuole lui finisce per perdere le staffe e spaccare tutto quello che gli capita a tiro col proprio giocattolo laser (prodotto dalla Mattel, gli stessi delle Barbie per intenderci).

Il giocattolo di Darth Water, col necessario manuale di istruzioni


Ed è così che, dopo una serie di eventi più inutili di un servizio di Striscia la notizia,  la famigerata mappa finisce nelle budella rugginose di BB-8, una cassetta per gli attrezzi semovente di ultima generazione, che sfrutta la sua forma sferoidale per andarsene in giro, e che suole allietare i presenti con deliziose scoreggine digitali, che alcuni accademici sono in grado di tradurre in locuzioni di senso compiuto. In seguito, tale palla scoreggiona viene raccattata da Rey, una gran figa deliziosa fanciulla che tira a campare rifilando alla gente pezzi di vecchi water nel deserto. Non si sa poi per quale assurda coincidenza, la signorina Rey (che, ricordiamo, ha appena trovato BB-8, il robottino più importante dell'intera Carcassa) si imbatte in un disertore sfigato del Primo Disordine. Ma attenzione, le coincidenze non finiscono qui! Infatti, i due fortunelli, con robot-palla al seguito, dopo essere stati attaccati dalle forze speciali del Primo Disordine, riescono nell'ordine:
1) a fuggire (ovviamente)
2) a fuggire a bordo della più famosa astronave della vecchia trilogia (quando Star Waters si chiamava Star Wars): il Millennium Falcon.
3) a incontrare i celeberrimi Han Compagnone e la moquette Ecciù, che irrompono nel Millennium un minuto esatto dopo di loro.

Be', quando si ha un culo di questo genere, si può fare di tutto. Perfino portare avanti un film come Star Waters. Ma il bello deve ancora arrivare.

Torniamo al nostro poveraccio mascherato, il cosplayer di Darth Vader. Egli viene manovrato - come un novello Emilio Fede - dal Leader Supremo Berlusnoke, un “essere” alto dodici metri (ma forse è il cosplayer ad essere alto solo venti centimetri) che un tempo svolgeva egregiamente il ruolo di superkattivo ne Lo Hobbit, poi, vista la crisi (soprattutto di idee), è stato riciclato sul set di Star Waters con una completa plastica facciale per farlo sembrare un po' meno grezzo e un più finto intellettuale radical chic. Pazienza. Costui convincerà il Fedele Darth Water che per continuare a essere kattivissimo e ricalcare degnamente le orme di Darth Vader, dovrà uccidere suo padre, Han Compagnone.

Prima e dopo la plastica

Più o meno a questo punto del film, viene mostrato lo Stran-Killer, un nuovo, folgorante scaldabagno a risparmio energetico in classe A++++ , che funziona a energia solare, ovviamente identico a quello del vecchio Star Wars, solo un po' più grosso, più tondo, più bello...insomma, più. Manco a farlo apposta, il prodotto soffre degli stessi difetti di fabbrica della Morte Nera, ma questo lo vedremo meglio in seguito. Naturalmente, lo scaldabagno in questione è il giocattolo preferito dal cosplayer Darth Water, il quale però, tra un bagno caldo nella sua vasca traboccante di petali (in stile American Beauty) e una partita a Wing Commander, non dimentica certo di assolvere ai suoi doveri. Ed è così che dopo aver legato la bella Rey alla sua personalissima poltrona di tortura sessuale, farà di tutto per convincerla a comunicargli i dettagli della mappa (da lei avuta da BB-8) che conduce a Luke Skyworker. Ma la ritrosa Rey non si lascerà imbambolare dai trucchetti mentali che l'untuoso Darth Water ha faticosamente appreso grazie a intensivi corsi online di autostima e PNL.
Oh, quasi dimenticavo. Oltre a Darth Water, anche Rey si porta in giro uno di quei giocattoli della Mattel, la "spada" laser, essendo stata lei “prescelta” (una parola troppo oscura per poterne carpire il reale significato) in un concorso bandito dalla stessa Mattel. Ora, come molti di voi sapranno, esistono molti giocattoli utilizzabili anche per scopi “seri”, come ad esempio il Cubo di Rubik. Questi bastoncini laser, in mani inesperte, sono dunque perfettamente inutili. Ma, magia delle magie, si scoprirà che anche Rey, come il vecchio Skyworker, è dotata di una manualità fuori dal comune nell'utilizzo della Morsa, che, tra le altre cose, permette appunto di maneggiare alla grande 'sti bastoni laser. Strano però: da quel che ricordo il volenteroso Skyworker si è dovuto fare un mazzo galattico per imparare a usare a dovere i bastoncini laser, frequentando dapprima il corso base Obi-One (gentilmente offerto dai supermercati OBI, i maghi del fai da te), e in seguito numerosi master e corsi di aggiornamento tenuti dall'emerito Prof. Yoda, poi deceduto per abuso di cosmetici che donavano alla sua pelle il caratteristico colore verde-palude che tutti noi ricordiamo. Invece Rey, e perfino il suo amico sfigato disertore (ve l'eravate scordati eh?), diventano spadaccini provetti prima ancora che lo spettatore incredulo possa indignarsi e mandare un insulto all'indirizzo del venerando regista Jar Jar Binks, conosciuto anche come J.J.Abrams.

Il viso intelligente di J.J.

Comunque, siccome questa storia strampalata si sta allungando troppo (e figuratevi vederla al cinema, ben 136 minuti!), vediamo di stringere.
Han Compagnone, ormai troppo vecchio e rincoglionito per poter prendere decisioni sensate, ha la brillante idea di raggiungere Darth Water, suo figlio, per farlo ragionare sul fatto che la sua vita di cosplayer è più miserabile di quella di un uomo che si masturba leggendo Cinquanta sfumature di Grigio. Risultato: il Water lo fa fuori.
Nel frattempo, i piloti della Resistenza (i sessantottini) fanno un casino bestiale, occupano scuole, università, paninoteche, sale giochi, fin quando non riescono a mettere le mani sul famigerato scaldabagno Stran-killer. E indovinate come lo distruggono? Ma è ovvio: nello stesso identico modo in cui trent'anni prima sono stati annientati ben due scaldabagni della linea “Morte Nera”. Ma quale slancio di fantasia, signor Abrams! Possibile che nell'arco di trent'anni non hanno pensato a costruire qualcosa di meno distruggibile della Morte Nera?
Dulcis in fundo, la scoppiettante Rey affronta Darth Water col suo bastoncino laser, e senza alcun addestramento riesce a (cito da wikipedia perché non ho il coraggio di scriverlo io):
resistergli e sfregiargli il volto 
Ma non finisce qui, poiché, meraviglia delle meraviglie, magia delle magie, coincidenza delle coincidenze, il droide R2-D2 (l'altro scoreggione del vecchio Star Wars), spentosi dal giorno della partenza di Luke, decide di riattivarsi proprio alla fine del film per rivelare il resto della mappa che conduce a Skyworker. Et voilà!

Conclusioni

C'erano una volta, in una galassia lontana lontana, Luke Skywalker, Darth Vader, Yoda, C-3PO, Han Solo e tanti altri personaggi che hanno fatto sognare frotte di nerd come me, rendendo sopportabile, e per certi versi memorabile, la loro infanzia e/o adolescenza costellata di torture scolastiche e insuccessi con l'altro sesso.
Il presente è diverso, così diverso che si rende necessario scopiazzare il passato, rivestendolo con sbrilluccicosi orpelli da mercatone digitale del 2015, per non rischiare di fare fiasco. E in tutto ciò, nemmeno un'idea originale, o una trama che non soffra di buchi logici e idiozie da Oscar. 
Che dire? Usate la Forza, ragazzi. Usate la Forza.

SCHIFOMETRO


mercoledì 16 dicembre 2015

Pubblicare un romanzo, manuale per (non) riuscirci e ritrovare la felicità

Desideri, sogni, illusioni, fama e gloria...insomma, siamo alle solite. Prendiamo questa faccenda di pubblicare il manoscritto nel cassetto. Per quale ragione il panettiere, la casalinga, gli attori, i calciatori,  il vostro gatto, la mia ragazza, i nostri futuri figli e una discreta fetta dell'umanità sognano di sedere alla destra del Padre (Stephen King)?
Un primo aspetto curioso è che spesso le persone vogliono pubblicare “qualcosa” che nemmeno hanno scritto o, nel peggiore dei casi, nemmeno progettato. Insomma, vogliono pubblicare e basta. Pubblicare cosa? Problema secondario. Fama e gloria, in prims. Ché siamo tutti così soli, socialnetworkamente insoddisfatti. Perciò, avanti un altro: c'è sempre posto lungo la  scala che conduce alle gloriose vette del paradiso di Amazon. 

D'accordo, d'accordo, forse sto esagerando. Magari questi loschi personaggi dal delirio facile sono meno di quanto pensi, perciò passiamo oltre. Vediamo quindi che succede agli altri, quelli "normali", quelli che hanno scritto un romanzo e vogliono pubblicarlo, quelli che "sì, penso che il mio romanzo abbia molte qualità ma anche molti difetti che spero di poter correggere lavorando con un editore serio e onesto". 

Non c'è molto da dire in effetti: costoro hanno tutta la mia compassione, o meglio, la poca di cui dispongo ancora (ne ho già riversata parecchia su me stesso, poiché anch'io appartengo alla folta schiera di tali disgraziati). Basta che mi guardi allo specchio: la sola parola "pubblicazione" fa scendere sul mio viso un'ombra di afflizione che nemmeno quella di un consumato ludopate quando la mamma gli dice che non avrà più un euro da giocare alla slot-machine sotto casa.
I motivi di questo malessere sono molteplici. Tanto per cominciare, "pubblicare" è un termine squisitamente puttanesco, di cui ognuno fa quel che vuole. Per "ognuno" intendo: editori, lettori, agenzie letterarie e compagnia bella. Sì, ci sono anche gli scrittori, ma quelli non fanno grossi danni, fintantoché non vengono assecondati.
Vi offro una mia sommaria interpretazione. Pubblicare per me significa:
  1. Studiare almeno una base di tecniche narrative, con particolare riferimento al genere letterario da noi trattato
  2. Scrivere un genere letterario che ci appassioni, il che lascia sperare che siamo anche ben ferrati su quanto già pubblicato nell'ambito di quel genere
  3. Trovare un editore che non miri solo al profitto, ma anche alla qualità delle opere che gli vengono sottoposte
  4. Condividere la mia opera con una vasta schiera di scrittori/lettori
I problemi iniziano già dal primo punto: parlando di romanzi di genere (accantoniamo dunque literary fiction, saggistica e sperimentazioni varie), le famose tecniche narrative (show don't tell, gestione del punto di vista, etc) devono sempre fare i conti con l'interpretazione soggettiva. Checché ne dicano alcuni insigni personaggi quali il Duca, infatti, bisogna riconoscere che l'applicazione, pur rigorosa, delle svariate regole, sub-regole ed iper-regole da lui ed altri tanto decantate, non garantisce sui lettori un effetto sicuro e, soprattutto, universale, quale può essere, ad esempio, quello di un cazzotto in faccia.

Le tecniche narrative si inchinano di fronte 
al potere assoluto dei cazzotti di Bud

Pensare che esista un modo univoco di dosare e combinare le tecniche narrative affinché un romanzo raggiunga un ben determinato livello di vicinanza alla "perfezione", è pura follia, poiché non esistono livelli di perfezione dove entra in gioco, sia pure in minima parte, la soggettività. Ad esempio, nonostante il Duca non faccia altro che documentarsi sulle tecniche narrative più moderne, trovo che le opere di Vaporteppa siano afflitte dai soliti, fastidiosi problemi di gamberesca memoria, di cui tornerò a occuparmi nel blog.

Tuttavia, può essere utile – o, in alcuni casi, necessario –  studiare tali tecniche, per potersene poi servire a proprio piacimento, e acquisire così una maggiore consapevolezza di quel che si sta facendo (invece di procedere a caso come fanno quasi tutti quelli che si mettono a scrivere romanzi). 
Pertanto, ritengo che tentare di misurare l'oggettivo livello qualitativo di un romanzo, o di un racconto, sia un'attività piuttosto inutile, salvo incappare in opere dai contorni ben definiti, ovvero: romanzi palesemente scritti coi piedi, come le varie stronzatine par-anormal-romance o urban-fentasi che asfissiano le librerie.

Ma se anche tali tecniche fossero infallibili, e assicurassero risultati rappresentabili tramite diagrammi simili a quelli tanto disprezzati dal Prof. Keating (il quale, guarda caso, si è guadagnato per questo i divini insulti di Gamberetta), rimane il fatto che la conoscenza di tali tecniche sarebbe del tutto inutile ai fini della pubblicazione. Così come sarebbe del tutto ininfluente aver scritto un'opera con entusiasmo e passione (punto 2). Perdonate l'ovvietà, ma ritengo sempre utile ribadire che le case editrici, in particolar modo in questo periodo storico, non rappresentano entità deputate alla diffusione di cultura ed emozioni, bensì semplici aziende che perseguono un unico scopo: mandare avanti la baracca, sennò i loro azionisti, dipendenti e compagnia bella, rimangono senza mangiare. Il che vuol dire che il medio-grande editore bada quasi esclusivamente al nome degli autori, e non a ciò che scrivono. Ergo, se Silvio Muccino – attore conosciuto – scriverà un romanzo sulla sua vita, non gli mancherà certo il supporto di qualche editore titanico, a prescindere dalla qualità (o utilità) complessiva dell'opera.

Ma cosa blateri! Scrivere un'opera con passione e competenza aumenterà anche le possibilità di essere notato da un editore, poiché un'opera scritta con competenza e passione venderà molte copie e quindi l'editore sarà felice!

Sbagliato. Partiamo dal dato che un italiano su due non legge nemmeno un libro all'anno. Ora, prendiamo un bel respiro e ripetiamo ad alta voce: UN ITALIANO SU DUE NON LEGGE LIBRI.

Risparmiamoci altre stucchevoli statistiche riguardo la restante metà degli italiani, tanto potete immaginare da soli che se trenta milioni di italiani non leggono nemmeno un libro all'anno, i restanti trenta milioni non saranno probabilmente divoratori di libri, salvo una piccola fetta.
Dunque, chi leggerà i vostri libri, considerando che per ogni singolo lettore "forte" (diciamo quelli che leggono almeno un libro al mese, ovvero gli unici lettori che valga la pena considerare per abbozzare una statistica) esistono sul mercato una miriade di libri ed ebook?

Rimane poi un'altra banale domanda: quei pochi italiani che leggono, cosa leggono?
Chiunque abbia digerito in vita sua almeno un centinaio di romanzi decenti, potrà rispondere da solo. Ma forse potrà rispondere da solo anche chi, pur non avendo mai letto nulla di decente, disponga di quel minimo di materia grigia necessaria a capire che probabilmente quei fantasmagorici volumi che troneggiano sugli scaffali delle librerie, non sono esattamente capolavori (naturalmente, non parlo dei classici, né di quei pochi autori contemporanei italiani che si salvano).

Un'ottima attività da svolgere in libreria

D'altronde, perché dovremmo trovare in libreria qualcosa di diverso da ciò che ci propinano in tv, internet, cinema, giornali...? Se esaminiamo le classifiche dei film più visti in Italia negli ultimi anni, quante opere degne di nota troveremo?
E non dimentichiamo che nel caso della scrittura il problema è ancora più grave, molto più grave, poiché scrivere è “facile”: non necessita di mezzi dispendiosi (basta un pc o un tablet) e non comporta (all'apparenza) un difficoltoso percorso di apprendimento di competenze specifiche, come invece capita se si vuol suonare uno strumento o girare un film. Insomma, chiunque può mettersi a tavolino, scrivere duecento pagine di roba infima, e reputarsi poi uno scrittore perché la mamma e gli amici gli hanno detto che il romanzo è figo. Questa è senza dubbio una delle principali ragioni per cui le scrivanie di editori ed agenti letterari (per non parlare del mondo self-publishing) sono intasate di robaccia.

Robaccia, robaccia...tu parli sempre di robaccia! Ma cosa significa esattamente “robaccia”? Non pensi di essere soltanto un banale snobista invidioso? Uno di quei disadattati che per meglio sopportare la loro misera esistenza non sanno far altro che urlare ai quattro venti che il mondo fa schifo?

Mi sono posto spesso queste domande. E alla fine ho capito che la robaccia esiste, eccome.
Come già accennato, le possibilità sono due: o abbiamo a che fare con opere infime, su cui c'è poco da discutere, o abbiamo a che fare con opere che raggiungono il livello della decenza, sulle quali è giusto e lecito aprire un dibattito (come dicevo prima parlando di soggettività). Come distinguere le une dalle altre? Ognuno seguirà il suo metodo. Oltre alle già citate tecniche narrative (e alla conoscenza approfondita del genere da noi trattato) che offrono un primo importante paradigma di riferimento, potremmo sconfinare nel campo delle emozioni. Nonostante le emozioni siano soggettive, infatti, non ritengo che questa soggettività sia così vasta da poter spingere qualcuno ad amare follemente una poesia del tipo:

Splende la luna
mi innamoro guardandola
oh quanto sei bella, mia luna!

Insomma, esistono limiti abbastanza netti e facilmente riconoscibili, entro i quali la banalità o la bruttezza di un'opera sono pressoché indiscutibili. Possiamo individuare infatti in ogni epoca, e per ogni società, determinati canoni e convenzioni che distinguono, grossomodo, il bello dal brutto, il genio dallo stupido, la merda dalla cioccolata. 
Prendiamo ad esempio i celebri romanzi della Meyer e i suoi vari cloni. A mio parere, tali scritti non rappresentano opere di qualità, poiché non hanno lasciato nulla in chi li ha letti. Mi spiego meglio. Tali opere, a prescindere da quale fosse lo scopo degli autori, hanno un unico effetto: infestare la mente dei lettori, generando veri e propri feticci da venerare grazie all'uso, anzi, all'abuso di sentimentalismi di “facile fruizione” (e dunque agevolmente replicabili e spendibili sul mercato). Nulla di diverso da quanto avverrebbe se ci recassimo in una comunità di selvaggi facendogli vedere quanto siamo bravi a generare il fuoco da un oggetto che sta nel palmo della mano, con la conseguenza di farci adorare come divinità. Per questo, il giochetto di Twilight&simili funziona solo con individui di basso livello culturale (almeno dal punto di vista artistico, poi puoi essere pure un genio di chimica e amare comunque i romanzi spazzatura), che purtroppo costituiscono la massa socialnetworkamente attiva. 

Gli Ewok in adorazione di C-3PO...perdonate, ma oggi esce Star Wars

Naturalmente, non sarò così miope da affermare che tutto ciò che oggi viene pubblicato è da buttare al cesso. Qualcosa di buono c'è, ma parliamo di una fetta piuttosto misera. Senza contare che – tornando a quanto affermavo sopra –  una volta superato il livello della cacca senza compromessi, i margini di soggettività diventano così ampi che un'opera considerata geniale da un editore potrebbe essere giudicata mediocre da un altro.
Rimarrebbe perciò da chiedersi: chi è il colpevole? Sono gli editori kattivi che, come abili pusher in cerca di prede, plasmano le fragili menti dei lettori ignoranti, oppure sono proprio i lettori a bramare (più o meno consciamente) l'ennesima dose di droga mal tagliata, magari perché tale robaccia funge da anestetico ai problemi della nostra vita, quegli enormi problemi latenti di cui nemmeno siamo a conoscenza, problemi che richiederebbero molto tempo (che nessuno ha) per essere riconosciuti, analizzati e, quindi, affrontati?
Insomma, è nato prima l'uovo o la gallina? E' una questione su cui sono state scritte intere enciclopedie, riguardo i temi più disparati. Per cui, meglio passare oltre.

La spiegazione più brillante che ho trovato

A questo punto, qualcuno osserverà che non bisogna per forza pubblicare con un grande editore. Per incrementare notevolmente la possibilità che il nostro manoscritto venga notato, si può anche optare per un piccolo editore che, probabilmente, rispetto a un big, sarà anche più  propenso ad ascoltarci, affiancarci, guidarci, per una serie di ragioni facilmente intuibili. Purtroppo l'altro lato della medaglia è che il piccolo-medio editore non potrà certo contare su potenti mezzi di distribuzione e marketing in genere, il che si traduce nel fatto che, salvo casi eccezionali, potremo piazzare nella migliore delle ipotesi qualche centinaio di copie della nostra opera. Dunque, possiamo dire addio al quarto step del mio schemino ("condividere la nostra opera con una vasta fascia di lettori").

Arrivati a questo punto, è dunque normale chiedersi: per quale motivo pubblicare?
Forse non è una domanda abbastanza chiara. Scriviamola di nuovo, a caratteri più grandi:

PERCHE' VUOI PUBBLICARE IL TUO ROMANZO?

Se non ti è ancora chiaro, clicca qui 

Possibili risposte:

1) Voglio ottenere i complimenti e il riconoscimento ufficiale dello status di “scrittore” da parenti, amici e conoscenti vari.
Si tratta senza dubbio del motivo più diffuso, sebbene rimanga spesso sepolto a livello così inconscio che molte persone non sono in grado di riconoscerlo, come del resto accade con la maggior parte dei nostri reali bisogni e desideri.
Tale proposito si infrangerà miseramente contro la realtà, poiché abbiamo già visto che pubblicare con un grande editore è pressoché impossibile (parlando sempre di autori esordienti), mentre pubblicando con un piccolo editore non avremo alcuna possibilità di vedere il nostro bel romanzo esposto in libreria (salvo forse qualche libreria indipendente della nostra città, perché siamo suoi clienti da anni etc.), il che, vi assicuro, risulterà molto deludente, della serie: "Ma come, ho sudato sette camicie, ho inviato il manoscritto a centinaia di editori, alla fine uno ha deciso di pubblicarmi, e ora sono un perfetto signor nessuno, esattamente come prima? E adesso che gli dico ai miei amici, ai miei genitori e a tutti quelli che pensavano grandi cose di me?" (Quest'ultima domanda forse non emergerà chiaramente, ma coverà nei meandri più profondi della nostra mente, generando in noi un inspiegabile senso di malessere.)
Un'eccezione a tutto ciò può venire dai soldi. Se sei ricco, e vuoi investire una parte del tuo patrimonio nella promozione del tuo libro, si aprono molte possibilità. Ma tu sei ricco? E se lo diventassi, il tuo primo pensiero sarebbe quello di promuovere i tuoi romanzi? Sicuro?

2) Voglio che molte persone leggano la mia opera. Non dico come Saviano, ma quasi.
Mi pare di aver già trattato a sufficienza questo punto. Se non siete già conosciuti in ambito mediatico, o non avete qualche sensazionale asso nella manica che vi permetterà di diventarlo, l'unica possibilità concreta, e come tale degna di essere trattata, è quella di pubblicare con un piccolo-medio editore, che vi permetterà di raggiungere qualche centinaio di lettori e, nella migliore delle ipotesi, organizzare una manciata di presentazioni della vostra opera presso qualche libreria, dove piazzerete qualche altra decina di copie. Se questo vi rende felice, sono contento per voi. Intendiamoci: non ho nulla contro i piccoli editori, tutt'altro, ma in questi casi, per svariate ragioni, preferisco rivolgermi al self-publishing, che tutto sommato qualche soddisfazione me l'ha data. Ma questa è un'altra faccenda, quindi ne rimando la trattazione a futuri articoli.

3) Voglio vedere riconosciuta ufficialmente la qualità letteraria della mia opera.
Qui si apre un mondo. In primis, dovresti prima di tutto considerare quanto detto sopra, e cioè che la stragrande maggioranza della roba pubblicata è cibo per cani. Dunque, nella maggior parte dei casi non esiste alcuna corrispondenza tra pubblicazione e qualità dell'opera pubblicata (fermo restando anche tutto il discorso già fatto sulla difficoltà del definire un'opera più o meno valida dal punto di vista letterario). Se però riesci a trovare un editore disposto a lavorare con esordienti, un editore serio, onesto, che bada al contenuto dell'opera e non semplicemente a fare cassa, dovresti comunque domandarti se l'editore che ha deciso di pubblicare la tua opera sia in realtà una persona competente o meno. Per rispondere al quesito, ancora un volta non vedo molte alternative: bisogna avere un minimo di preparazione letteraria, conseguibile grazie allo studio di manuali di scrittura e alla lettura di molti romanzi. Solo in tal modo, leggendo qualche opera selezionata dal catalogo del nostro editore, potremo farci un'idea riguardo le sue competenze, i suoi “gusti”, la sua politica editoriale. 
Un altro modo per conoscere pregi e difetti della nostra opera, è quello di affidarsi a beta-reader affidabili o a editor “indipendenti” (come il Duca, ecco l'ho detta). Deve trattarsi, in ogni caso, di persone preparate e che non si facciano scrupoli a sbattervi in faccia la verità, o meglio, una verità. Ma a questo punto vi chiedo: una volta ottenuto pareri favorevoli e utili consigli da persone in cui riponete la vostra fiducia, persone che ritenete sagge e dotte, e che sagge e dotte lo sono davvero poiché voi stessi, in base alla vostra sudata competenza in ambito narrativo, le reputati tali, per quale dannato motivo, desiderate, agognate, morite di gioia al solo pensiero che un cazzo di editore, un essere umano, uno che avrebbe potuto fare anche il carpentiere o l'ingegnere, o mille altre cose che finiscono per -ere, possa rivolgere su di voi il suo sguardo misericordioso? 

E' una domanda che mi ha perseguitato a lungo, e la risposta che mi sono dato è piuttosto deludente. Se non l'aveste già fatto, vi consiglio di vedere il film Samsara. Il messaggio cardine dell'opera è: spesso bisogna provare un'esperienza, prima di potervi rinunciare. Questa sì che è una verità da appiccicare a caratteri cubitali sullo schermo curvo della nostra tv fullaccaddì.
In effetti, è tutto molto semplice: noi umani siamo alla costante ricerca di nuove esperienze, anche quando sappiamo già in partenza, con assoluta certezza, che quelle esperienze saranno fonte di delusione, poiché, in realtà, esse semplicemente non esistono, o meglio, esistono solo in veste di sogni e speranze che ci aiutano ad andare avanti. Perciò, nel momento stesso in cui si realizzeranno, tali esperienze perderanno la loro brillante veste di "sogni" e si dissolveranno nel nulla, o si riveleranno totalmente differenti da quanto ci aspettavamo. 
Eppure, non possiamo fare a meno di provarle, queste benedette esperienze, prima di poterle accantonare nel cassetto che riporta l'etichetta: "vissuto e compreso".  
Così, lottiamo per pubblicare, per poi renderci conto di essere solo burattini nelle mani del Magnifico editore, il Messia giunto a monda-dora-re i nostri peccati, oppure pubblichiamo con un piccolo editore, per poi renderci conto dopo un annetto che nessuno ci ha telefonato a casa per intervistarci e nessuno ci ha chiesto autografi per strada, e che forse il nostro commercialista è ben più conosciuto di noi, e che probabilmente il nostro vicino di casa, o una tizia antipatica beccata sul web, che si fa chiamare Gamberetta, hanno una preparazione letteraria di gran lunga superiore a quella dell'editore che ci segue, e che la loro opinione e i loro consigli ci sono tornati ben più utili.
Oppure, chissà, è il puro e semplice sogno di diventare i nuovi Stephen King (rieccolo) a spingerci. In fondo noi siamo bravi, abbiamo qualità. Prima o poi qualcuno si accorgerà di noi.

Dunque, soltanto dopo aver constatato di persona quanto inconsistente e inutile sia tutto ciò, potremo balzare sulla sedia urlando: ma chi cazzo se ne frega della pubblicazione, io scrivo perché GODO, e siccome HO BISOGNO DI GODERE, siccome MI PIACE GODERE, allora MI PIACE SCRIVERE!

Questo è scrivere

Già vedo mille mani alzate con annesse grida: “Sì, è vero! Io sono così! Io scrivo solo perché amo scrivere, non perché penso alla pubblicazione!”
Ma chi volete prendere per il culo? La maggior parte di voi (diciamo il 99%, tra cui figuro anch'io), non ha ancora provato l'esperienza della pubblicazione, e fino ad allora il prurito non si placherà. Rimane quell'1% di persone che, a prescindere dall'aver pubblicato o meno, stanno facendo una fatica immane per metabolizzare una volta per tutte la semplice evidenza che questa storia della pubblicazione ha poco o nulla a che fare col desiderio di scrivere, per tutte le ragioni summenzionate. Io sto lavorando alacremente per entrare a far parte di questa minoranza, e voi?

Come dite? Se fosse per me le case editrici dovrebbero sparire? E se io chiedessi a voi:
-i politici italiani dovrebbero sparire?
-la scuola, così com'è concepita oggi, dovrebbe sparire?
-...e le banche, la sanità pubblica...? 

Insomma, non si più fare di tutta l'erba un fascio, ma magari piantare nuova erba, estirpando la vecchia mano mano che cresce la nuova, non sarebbe una cattiva idea. O sbaglio?

Penso che non occorra aggiungere altro riguardo questa faccenda. Ora potete (e posso) tranquillamente tornare a leggere i soliti lit-blog dove troverete post del tipo "100 modi per pubblicare il vostro romanzo", o qualcosa del genere. Buona fortuna!